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In una piccola baracca vive una comunità eterogenea composta da quelli che appaiono essere mebri di una famiglia tradizionale: genitori, figli, nonna. Vivono arrangiandosi come possono, e un giorno trovano in strada una bambina che accolgono nella loro famiglia. Poco a poco si scoprirà che nessuno dei componenti è legato da vincoli sanguigni.
Kore’eda Hirokazu mette in scena un film molto bello che affronta temi importanti con grande delicatezza. La sceneggiatura si sviluppa pian piano, facendo emergere punti importanti mentre la storia sembra viaggiare su un binario di staticità. Ma proprio questo racconto sottotraccia finisce per coinvolgere in modo deciso. Il tema è quello della famiglia, quale è la famiglia, quella di sangue o quella in cui si vive? Infatti il punto che è sottostante è quello della solitudine e la famiglia in questo caso rappresenta un luogo dove chi è solo ed abbandonato trova un posto dove sentirsi accolto ed amato. Kore’da dipinge sin dalle prime battute una condizione di clandestinità con il suo sguardo rubato da dietro le porte in un ambiente dove c’è poco spazio. Condizione, quella della clandestinità, che assumerà senso solo alla fine.

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