Timbuktu è controllata dalla polizia islamica che nel nome della jihad esercita il suo potere imponendo regole coercitive alla popolazione locale. Appena fuori, in un piccolo villaggio di tende, vivono in pace lontano dalle imposizioni, Kidane, sua moglie Satima e la loro figlia Toya. Sono pastori, vivono in armonia con l’ambiente finchè un giorno Kidane uccide un pescatore che per difendere il suo territorio gli aveva ucciso una mucca. Viene arrestato e fatto passare attraverso il giudizio della polizia islamica.
Il film di Abderrahmane Sissako è molto bello ed emozionante con un rigore narrativo che non concede nulla di più di quello che è strettamente necessario all’esposizione dei fatti, in linea con la vita estremamente essenziale che viene mostrata nel villaggio di piccole case e di tende. Lo scontro tra la popolazione locale e la polizia islamica, che viene da lontano e parla una lingua diversa viene mostrato senza concessioni verso nessuna delle parti in causa. A loro modo tutti seguono leggi esterne e codici interni in modo nitido. Non c’è giudizio nel racconto delle diverse parti in causa.
Quello che risulta evidente è che se i nativi sono capaci di integrare la religione con le tradizioni della cultura antica e moderna per vivere in armonia seguendo l’unica legge universale dell’uomo e dell’amore, gli invasori sono in grado di obbedire in modo rigido ad una unica legge, che è quella interpretata dalle scritture senza tener conto dell’uomo nella sua interezza infliggendo punizioni severe e azioni coercitive perché così è scritto. A prima vista sembra che il potere esercitato dai fondamentalisti islamici sia destinato ad avere sempre la meglio, ma guardando in profondità appare evidente il grande sforzo, le grandi quantità di energie e uomini che hanno necessità di usare per ottenere i loro risultati su piccole questioni. E allora ci sarà sempre qualcuno che sfugge al loro controllo pronto a inventare e vivere una vita di armonia.