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Nella periferia inglese dei primi anni 80 la famiglia Billingham è una delle tante che subisce i devastanti effetti della crisi di quegli anni. Ray perde il lavoro e insieme alla moglie Elizabeth e i due figli, si trasferisce in un council flat dove vivrà di solo reddito di disoccupazione per il resto della vita. Quella della famiglia Billingham è una storia di disagio che sembra non arrestarsi più fino alla fine dei giorni e il regista Richard Billingham, uno dei due figli, la racconta con tutta la crudezza necessaria ad esprimere con accuratezza il disagio e la sofferenza che visse in quella situazione.
Si tratta di un racconto basato su tre momenti temporali diversi: il presente dove assistiamo all’inesorabile declino di Ray, ormai dedito solo e soltanto a bere, rinchiuso nella sua stanza dove ogni tanto riceve la visita di Liz, che dal canto suo non fa altro che fumare senza soluzione di continuità; gli altri due momenti sono due episodi del passato, distanti qualche anno tra loro, che non fanno che mettere in evidenze come il declino, in alcune parti del tessuto sociale, una volta iniziato sia inarrestabile. Una stira drammatica, dura, racconta con estremo realismo e senza nessun sentimentalismo, che si avvale di un’ottima messa in scena e una fotografia che richiama i colori, oltre che il formato, tipico degli anni ’80. In mezzo a tanta disperazione irreversibile, l’unica, incoraggiante nota positiva, viene proprio dal fatto che è lo stesso regista ad avere trovato la forza di uscire da quella condizione ed aprirsi a prospettive ben diverse. In questo senso il racconto autobiografico oltre a rappresentare della cifra della sua narrazione assume un importante carattere terapeutico che ci dice che proprio grazie al racconto personale è possibile uscire da un destino che sembra non lasciare scampo.

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