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Nella campagna danese vive la famiglia Borgen, il patriarca con i suoi tre figli, uno dei quali sposato con due figlie. Uno dei figli, Johannes, è impazzito dopo gli studi di teologia e si aggira profetico per la casa, mentre il minore Anders, è innamorato della figlia del sarto che è assolutamente contrario all’unione perché le due famiglie hanno credo religiosi diversi. Gli eventi precipitano quando Inger, moglie del più grande dei figli, perde il figlio durante il parto.
Carl Theodor Dreyer mette in scena un lavoro dai contenuti altamente spirituali, rigoroso e austero. Scarne sono le ambientazioni, essenziale la regia che sceglie la panoramica come unica forma narrativa per una sorta di kammerspiel che vede tutti gli attori impegnati in una recitazione straniante. Il tema è quello dei conflitti religiosi che regolano le vite delle famiglie, così impegnati a difendere il loro credo protestante, cattolico o ateo e capaci di perdersi in questa battaglia fino a perdere di vista la realtà, quello che accade intorno e l’essenza stessa della vita spirituale: la fede. Nessuno si accorge che Johannes in quelli che vengono visti come deliri profetizza letteralmente ciò che sta per accadere, in una sorta di coro greco. E nessuno riesce a mantenere quella fede forte e incrollabile capace di far accadere i miracoli. Un paradigma che può estendersi a tutti i temi che non siano necessariamente religiosi.

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