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la paura che paralizzaAlina torna a casa, in Romania, dalla Germania a trovare Voichita. Sono due ragazze, cresciute insieme in orfanotrofio e legate da una storia d’amore che dura da sempre. Voichita ora è in convento, dove ha intrapreso la via monacale e non è più disposta a rivivere quell’amore né tantomeno a lasciare la vita religiosa per andare con Alina in Germania.
Comincia un conflitto che coinvolge tutti, ognuno impegnato nel proprio compito. Alina nel ritrovare l’amore perduto, la comunità delle monache, presieduta da un prete, che cerca di conservare l’armonia messa a dura prova dalle esplosioni di rabbia e gelosia di Alina e Voichita che cerca di stare vicino all’amica e che al tempo stesso vuole rimanere nella strada della fede da poco abbracciata. In un crescendo di tensione e incidenti la comunità monastica, spaventata dal comportamento di Alina, decide di sottoporla ad esorcismo arrivando a compiere gravi sevizie e privazioni che causeranno un finale tragico
Mungiu sceglie di mostrarci la storia con lunghe sequenze riprese sempre da un unico punto di vista, che è poi quello che dimostrano di avere tutti i protagonisti della storia.
Insieme ad una bella fotografia, sobria e incisiva, fornisce alla narrazione un rigore che ben si addice all’atmosfera monastica dove si svolge gran parte del film.
Ogni parte in causa è strenuamente attaccata alle sue certezze, a quelle che il proprio ambito di vita gli fornisce. Che diventano una convinzione ottusa, irragionevole, che perde di vista l’altro come essere umano per trasformalo in oggetto della propria missione, finendo per risultare deleteria.
Quello che accomuna tutti è la paura, la paura della vita, della solitudine, del dolore. E che ognuno risolve come può, chiudendosi nel suo mondo di fatto di convinzioni ciecamente condivise. Risulta evidente per il prete e le monache. E traspare dal modo che vediamo sullo sfondo, i medici, la famiglia adottiva di Alina e gli stessi poliziotti che arriveranno per indagare sul caso.
E sull’operato di ognuno si apre un interrogativo etico, che verte sul paradigma di riferimento di chi opera secondo quello che crede essere il bene, sulla necessità di integrare in una valutazione complessiva, l’intenzione e l’azione che sembrano avere strade divergenti. Ed è una riflessione che tutto sommato rimane aperta, non c’è un giudizio nel raccontare questi fatti, accaduti realmente, che sono atroci, nemmeno per la comunità del convento che di fatto provoca la tragedia.