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In un comune quartiere periferico di Tiblisi vivono ammassati tre generazioni della stessa famiglia. I genitori di Manana, insegnante di 52 anni, suo marito, e i suoi 3 figli, tra cui la più giovane con il marito. È una convivenza che va avanti da 25 anni, tra conflitti difficoltà di varia natura e il tentativo di mantenere il clan unito. Ma proprio alla vigilia del suo compleanno Manana decide di lasciare tutti e trasferirsi un piccolo appartamento che ha affittato. Non spiega a nessuno il perché e tutti rimangono sorpresi e confusi.
Nana Ekvtimishvili, Simon Gross mettono in primo piano l’indagine sull’individuo nella famiglia, nel clan di appartenenza. Si tratta di un’appartenenza che confonde, che lima le caratteristiche individuali, soprattutto nel caso di un carattere come quello della protagonista, riversato, quasi dimesso, e che porta a perdere il senso di sé. Solo rispondendo ad un disagio interiore, non ancora del tutto individuato, la protagonista può finalmente far emergere tutta la frustrazione, il dolore e la rabbia accumulata nel tempo, conseguenza di un ambiente che non è capace di ascoltarla. Lo stile della regia rifiuta tutte le convenzioni grammaticali per concentrarsi su un pedinamento fatta di long takes e movimenti sconnessi che riflettano la persistenza della situazione emotiva della protagonista e insieme la sua instabilità.

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