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La morte dell’amata moglie è un evento che pesa ancora troppo nella vita di Yusuke Kafusu, noto regista teatrale giapponese, grande esperto di Cechov. Quando accetta di dirigere Zio Vanja in un festival ad Hiroshima incontrerà delle persone che in qualche modo sapranno rimettere in piedi la sua vita. In particolare le conversazioni con Misaki, la sua giovane autista, con la quale condivide ricordi complessi, consentiranno all’uomo, e alla donna di elaborare le dolorose memorie del passato.
Quella di Ryûsuke Hamaguchi è una sfida al cinema mainstream, con la sua storia fatta di scene lunghissime, di silenzi altrettanto lunghi, addirittura in alcuni momenti la traccia sonora scompare del tutto, e su tutto la durata di 3 ore.
Messa in scena estremamente curata, Hamaguchi alterna continuamente pian i molto stretti a magnifici campi lunghi, proprio a sottolineare la difficoltà dei protagonisti di entrare in contatto pieno innanzitutto con le proprie emozioni. La paura che impedisce di manifestarsi in modo appropriato, che porta a creare scorciatoie comportamentali difficile da digerire e che generano solo rimpianto e amarezza. La paura do comunicare se stessi agli altri, di perdere quello che si ha, di scoprirsi estremamente vulnerabili, guida i personaggi del film fino a renderli apparentemente impassibile. Ma, di nuovo, è l’incontro con l’altro che dà la possibilità di scoprirsi e quindi di conoscersi sotto nuovi aspetti, di essere sempre più vicino al vero, condizione indispensabile per amare. La ricerca della verità, quanto è importante per le relazioni, si fonde con la paura e trova spazio nella rappresentazione teatrale che il film si propone di portare a termine, una rappresentazione che è il paradigma della stessa storia raccontata.

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