Quella di Ryûsuke Hamaguchi è una sfida al cinema mainstream, con la sua storia fatta di scene lunghissime, di silenzi altrettanto lunghi, addirittura in alcuni momenti la traccia sonora scompare del tutto, e su tutto la durata di 3 ore.
Messa in scena estremamente curata, Hamaguchi alterna continuamente pian i molto stretti a magnifici campi lunghi, proprio a sottolineare la difficoltà dei protagonisti di entrare in contatto pieno innanzitutto con le proprie emozioni. La paura che impedisce di manifestarsi in modo appropriato, che porta a creare scorciatoie comportamentali difficile da digerire e che generano solo rimpianto e amarezza. La paura do comunicare se stessi agli altri, di perdere quello che si ha, di scoprirsi estremamente vulnerabili, guida i personaggi del film fino a renderli apparentemente impassibile. Ma, di nuovo, è l’incontro con l’altro che dà la possibilità di scoprirsi e quindi di conoscersi sotto nuovi aspetti, di essere sempre più vicino al vero, condizione indispensabile per amare. La ricerca della verità, quanto è importante per le relazioni, si fonde con la paura e trova spazio nella rappresentazione teatrale che il film si propone di portare a termine, una rappresentazione che è il paradigma della stessa storia raccontata.