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Nel 2000 un’associazione umanitaria in Uganda chiede a Kiarostami di realizzare un documentario sulla condizione dei loro villaggi che versano in gravi difficoltà a causa delle conseguenze di una lunga guerra civile e delle conseguenze dell’Aids che sta decimando la popolazione lasciando, tra l’altro molti orfani al loro destino. Quello di Kiarostami è uno sguardo lucido sempre in bilico tra l’esplorazione dei sentimenti e quella della realtà che riporta. Non c’è spazio per enfasi di alcun tipo e dichiara, da subito, la presenza del mezzo di ripresa: sono moltissime le scene in cui lui stesso o il suo operatore, sono ripresi nell’atto di filmare con le loro videocamere tascabili. Non c’è pretesa di oggettività dunque, Kiarostami porta avanti il suo discorso sulla messa in scena anche in questo frangente molto difficile e diverso dal solito. Il grande pregio del lavoro è quello di riuscire a trasmette pienamente l’atmosfera che si respira in quel contesto. Vita e morte viaggiano insieme, senza che nessuna prenda mai il sopravvento sull’altra. Gli occhi vivi e gioiosi dei bambini che giocano per le strade sono perfettamente integrati con quelli spenti e fissi dei bambini ricoverati negli ospedali improvvisati. Tutto questo suscita riflessioni che vanno anche al di là della situazione specifica mostrata e spingono a interrogarsi sul senso profondo della propria esistenza

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